Esistono tantissime istruzioni riguardo alla meditazione, e alcune sembrano in completo contrasto. Alcuni tipi di meditazione richiedono la concentrazione dell’attenzione, e questo implica una certa dose di sforzo da parte del praticante. Al contrario altre istruzioni pongono l’accento sul lasciare andare ogni tipo di sforzo e sulla semplice testimonianza consapevole dei pensieri, delle emozioni, di quello che accade nel momento. Ho racchiuso questi due poli nel titolo di questo articolo: concentrarsi o lasciare andare?
Sembrerebbe che da una parte ci sia impegno e fatica, e dall’altra scorrevolezza e fluidità. Alcuni praticanti sono attratti in modo naturale verso il primo tipo. La loro struttura psicologica li porta verso quelle pratiche che pongono sfide e richiedono impegno. Altri sono più attratti dalla seconda modalità, che apparentemente sembra più naturale e richiedere meno fatica.
In realtà queste istruzioni non sono in completo disaccordo. Si inseriscono in un percorso meditativo a lungo termine in fasi diverse. Una costruisce il fondamento dell’altra, e infine si compenetrano a vicenda. I problemi emergono quando non si ha un panorama completo, o quando si vogliono saltare tappe fondamentali bruciando le tappe. Vediamo di chiarire meglio.

Scarica l'articolo in pdf
Scarica l'articolo che stai leggendo nel comodo formato pdf, pronto per essere stampato o letto offline su qualsiasi dispositivo.

I due tipi di meditazione
Se spogliata da ogni aspetto superficiale la meditazione è il processo di ristrutturazione dell’attività cognitiva, cioè del modo in cui la coscienza elabora e costruisce la percezione soggettiva. La ristrutturazione avviene usando l’attenzione. Per gli scopi di questo articolo è sufficiente comprendere il senso generale di questa affermazione. Se vuoi approfondire questo aspetto ti invito a leggere introduzione alla meditazione.
Il modo in cui l’attenzione viene usata può essere suddiviso in due modalità differenti.
La concentrazione dell’attenzione su un determinato oggetto oppure la concentrazione dell’attenzione sull’accuratezza dell’osservazione.
La prima modalità viene usata nella meditazione di attenzione focalizzata.
La seconda nella meditazione di presenza aperta. Questa è detta anche analitica, o di discernimento.
Le pratiche hanno effetti diversi in stadi diversi. Per fare chiarezza serve avere un quadro d’insieme: ci viene in aiuto il modello delle pratiche meditative.
Da leggere » Tipi di meditazione

Un modello delle pratiche meditative
L’idea di fondo di questo modello è di mappare stili diversi di meditazione, e i diversi stadi nella loro progressione, in uno spazio multidimensionale che li contenga tutti e che permetta un confronto diretto e immediato. Il modello è stato ideato da un’equipe di ricercatori: Lutz, Jha, Dunne e Saron. Lo trovo davvero utile e per questo te lo propongo, in una versione leggermente semplificata. Se sei interessato a leggere come è stato costruito puoi trovare l’articolo originale nella bibliografia in fondo a questa pagina.
La matrice di questo modello viene costruita usando uno spazio tridimensionale fondato su tre dimensioni funzionali dell’esperienza. All’interno di questo spazio vengono mappate quattro qualità dell’esperienza. Lo spazio tridimensionale assieme ai quattro aspetti qualitativi permette di racchiudere in un unico modello praticamente tutte le possibili configurazioni dell’esperienza.
Le tre dimensioni funzionali dell’esperienza
Orientamento all’oggetto

La dimensione “orientamento all’oggetto” si riferisce al grado in cui l’attenzione dell’individuo è indirizzata verso uno specifico oggetto, o verso una classe di oggetti. L’oggetto può emergere nel campo di consapevolezza tramite la percezione, il ricordo o l’immaginazione.
L’attenzione può essere fortemente orientata verso un oggetto, in modo intenzionale o meno. Questa condizione è indicata con il numero 1 nel fondo della scala. All’estremo opposto (0 nella scala) c’è la condizione in cui l’orientamento all’oggetto è completamente sospeso. Questo stato accade in particolari condizioni meditative.
Da notare che l’orientamento all’oggetto non dipende dal fatto che un particolare oggetto sia selezionato. Ad esempio, nel tentare di riconoscere una singola persona nel mezzo di una folla, le altre persone non sono selezionate direttamente, ma l’attenzione è comunque fortemente orientata verso un oggetto, cioè la persona cercata.
Dis-identificazione

La dimensione “dis-identificazione” riflette il grado in cui i pensieri, le sensazioni, le emozioni e le percezioni sono interpretati come processi mentali o come realtà vere e proprie.
Ad esempio, all’apparire di un pensiero del tipo “sono un fallito”, la persona lo percepisce come reale e si identifica con esso. Questo è l’estremo della scala (1), cioè la completa identificazione con l’oggetto. All’estremo opposto, lo 0 della scala, i pensieri e le percezioni perdono la loro integrità rappresentazionale. Sono esperiti semplicemente come eventi mentali, situati ed incorporati in un campo di tonalità sensoriali, propriocettive, sensoriali e somatiche.
[Una precisazione: in termini tecnici la dis-identificazione riguarda il senso del sé. Questa scala include tutto ciò che è compreso nel campo della consapevolezza. Il termine esatto sarebbe de-reificazione. Ho preferito usare il termine più conosciuto dis-identificazione perché più accessibile anche ai non addetti ai lavori.]
Consapevolezza

La dimensione della “consapevolezza” concerne il monitorare l’esperienza: l’attenzione è diretta verso il notare i contenuti della coscienza per divenirne consapevoli. Si tratta della consapevolezza riflessiva, cioè il processo che costituisce l’introspezione. Tecnicamente è definita consapevolezza in posizione “meta“, cioè che sta sopra, che monitora l’esperienza.
All’estremo inferiore della scala (0) troviamo una consapevolezza tipica di un principiante che coinvolto in una pratica di attenzione focalizzata è in grado di rilevare solo le grosse distrazioni. Perde l’oggetto di attenzione e si accorge dopo qualche tempo che è intervenuta una distrazione. All’atro estremo della scala, l’1, troviamo un meditante esperto che è in grado di mantenere la consapevolezza in posizione meta rilevando tutti i dettagli che compongono l’esperienza. Divengono accessibili a livello fenomenologico tutte le caratteristiche dell’esperienza: il contesto, lo sfondo, i singoli elementi che la compongono. L’individuo è consapevole delle minime variazioni in ognuna di queste e nel loro insieme. Con la maestria questa condizione è mantenuta senza alcun oggetto di attenzione specifico.
Le quattro qualità dell’esperienza
Apertura

Rappresenta quanto è concentrato o diffuso il focus dell’attenzione. Può essere ristretto su un singolo oggetto, come nell’attenzione focalizzata, oppure completamente aperto come durante la presenza aperta.
Chiarezza

La chiarezza si riferisce al grado di vividezza con cui accade l’esperienza. Come nel caso di un’immagine visualizzata, questa può essere chiara, vivida e brillante oppure offuscata, ottusa e confusa. Questa qualità non è relegata solamente alla visualizzazione, ma è una vera e propria caratteristica qualitativa dell’attenzione.
Stabilità

La stabilità indica il grado di persistenza nel tempo dell’esperienza. Può emergere spontaneamente, come nel caso di un umore depressivo che persiste nel tempo, oppure come condizione interiore coltivata intenzionalmente, come nel caso di attenzione sostenuta verso un oggetto o verso una qualità dell’esperienza.
Sforzo

Si riferisce all’impressione soggettiva della difficoltà a mantenere lo stato di coscienza in corso. Quando lo sforzo è basso, lo stato pare accada da sé, senza che ci sia un’intenzione deliberata al suo mantenimento. Quando lo sforzo è alto, all’individuo è richiesta un’intenzione consapevole che può essere sostenuta ai livelli massimi solamente per un certo periodo di tempo.
Negli stadi iniziali della pratica meditativa è richiesto un certo impegno da parte del praticante. È normale e fisiologico. Se lo sforzo persiste, negli stadi seguenti, diventa un ostacolo. Per questo motivo è importante calibrarlo accuratamente.
Gli stati mentali ordinari
Prima di affrontare l’argomento vero e proprio di quest’articolo, cioè la meditazione, è utile definire il punto di partenza all’interno del modello qui proposto. Lo possiamo definire distrazione mentale: lo stato mentale comune in cui la mente vaga per conto suo da uno stimolo all’altro. È distratta: non è concentrata su niente. L’individuo potrebbe anche avere delle finalità e perseguirle, ma nello stato ordinario la sua mente non è direzionata in modo univoco verso questi fini. Si inserisce in modo intrusivo e spesso è percepita come un disturbo. Più spesso ancora la persona non si accorge nemmeno di quanto sia distratta la sua condizione mentale.

Nei termini del modello qui proposto possiamo inquadrare questa condizione con una consapevolezza molto bassa, una dis-identificazione molto bassa, cioè quello che è percepito è considerato una rappresentazione accurata della realtà, e un orientamento all’oggetto che è in modo variabile nel mezzo del continuum proposto.
a stabilità è bassa, ci sono continui cambi del contenuto. L’apertura è bassa, ovvero sono elaborati solo pochi stimoli alla volta. La chiarezza è, nell’ipotesi ottimista, a un livello medio. Infine lo sforzo è minimo. Non c’è sforzo consapevole perché la mente è lasciata vagare in modo ordinario.
Questa che è stata descritta è una condizione piuttosto comune di funzionamento mentale, non patologica e accettata a livello collettivo come ordinaria. Talmente ordinaria che spesso non è nemmeno messa in discussione. La meditazione può modificare in modo rilevante questo scenario, ampliando notevolmente la gamma degli indici qui proposti e portando le capacità cognitive a un regime di funzionamento ottimale.
Gli stati mentali disfunzionali
È utile vedere brevemente anche alcuni tipi di funzionamento mentale disfunzionale, per comprendere come sono modificati gli indici qui proposti.
Ruminazione
Il primo che descriverò è la ruminazione. Il termine ruminazione è usato in campo psicologico per descrivere la condizione in cui la persona rielabora continuamente un pensiero. Il contenuto mentale si ripresenta continuamente e ripetutamente. La persona percepisce una resistenza nei confronti di questo contenuto, e proprio questa resistenza fa sì che esso si ripresenti nuovamente. Questo è percepito come un disturbo, perché tiene impegnata l’attività mentale della persona su un unico contenuto, o comunque su un tema specifico. La condizione è definita ruminazione perché rende in modo figurato l’idea di un riprendere più volte un contenuto e continuare a elaborarlo.

In questo stato mentale è presente un certo grado di meta-consapevolezza, cioè la persona conosce ed è in grado di parlare consapevolmente del contenuto in questione. L’orientamento all’oggetto è leggermente spostato verso l’oggetto stesso del contenuto mentale e la dis-identificazione è molto bassa, cioè il contenuto mentale è visto come una vera propria realtà.
A livello qualitativo è presente una certa chiarezza riguardo al contenuto. L’apertura è bassa, cioè il focus di attenzione è ristretto sul contento ricorrente. La stabilità è alta: lo stato mentale non si modifica facilmente. Proprio questo è percepito come disfunzionale. È presente un grado di sforzo medio-alto, in base alla resistenza messa in atto dalla persona nei confronti del contenuto mentale.
Dipendenza
Un’altra condizione disfunzionale è quella della dipendenza, da qualsiasi tipo di sostanza. All’estremo troviamo le dipendenze da alcol e droghe, ma le qualità della condizione descritta sono le stesse anche in caso di dipendenze minori: caffè, sigarette, cibo ecc. Sono considerate dipendenze di minore entità, socialmente accettate, ma lo schema è il medesimo.

Qui lo stato mentale è fortemente orientato verso l’oggetto, l’identificazione è fortissima e la consapevolezza dell’attrazione verso il contenuto è presente in maniera debole.
Il focus dell’attenzione è molto ristretto, concentrato sull’unico oggetto che pare in grado di placare il fastidio dell’astinenza. La sostanza desiderata è tenuta a mente con una chiarezza medio-bassa e con una stabilità altissima. Lo sforzo intenzionale è minimo, perché tutto l’impianto è mantenuto attivo da un funzionamento automatico disfunzionale fuori dal controllo cosciente della persona.

L’attenzione focalizzata del principiante
Vediamo ora come la meditazione si inserisce in questo scenario, modificando la qualità dell’esperienza. Nelle fasi iniziali della meditazione al praticante è richiesto di concentrare la sua attenzione su un oggetto specifico, convogliando le sue risorse cognitive unicamente su quell’oggetto. L’attenzione può essere messa sul respiro, su un oggetto fisico o su un oggetto mentale.
Al praticante è chiesto di rilevare quando l’attenzione si sposta dall’oggetto scelto e di riposizionarla intenzionalmente su di esso. Questo procedimento continua ininterrottamente per tutta la durata della seduta di meditazione di attenzione focalizzata.

Lo stato mentale è fortemente orientato all’oggetto. È presente un certo grado di consapevolezza che monitora quando l’attenzione è distolta dall’oggetto e l’identificazione cade circa a metà del continuum proposto.
Il focus di attenzione è molto ristretto, di conseguenza lo è l’apertura. Il fatto che si tratti di un principiante rende la chiarezza dell’oggetto un po’ opaca, la stabilità della condizione bassa e lo sforzo massimo. Lo sforzo è alto perché l’individuo non è abituato a mantenere in modo intenzionale e continuato l’attenzione su un unico oggetto.
L’attenzione focalizzata dell’esperto

Con la pratica costante della meditazione di attenzione focalizzata si guadagna la capacità orientare maggiormente la propria attenzione all’oggetto. Aumenta di molto la consapevolezza delle distrazioni mentali e la dis-identificazione dall’oggetto.
L’apertura è sempre bassa, perché il compito dell’esercizio è sempre quello di restringere il focus di attenzione. L’oggetto è visto in modo sempre più chiaro e vivido. Quando il praticante raggiunge la maestria di questo compito cognitivo, la stabilità è aumentata a un livello alto e lo sforzo diventa minimo.
Si vede chiaramente il contrasto con la fase iniziale. Aumenta la capacità di essere consapevoli delle distrazioni, si rinforza l’abilità di mantenere la condizione a lungo e quindi lo sforzo, che inizialmente è percepito come elevato, gradualmente lascia spazio a una condizione di naturalezza.

La presenza aperta del principiante
Il percorso meditativo in genere prosegue dando al praticante un nuovo compito. Guadagnata la stabilità dell’attenzione, ora questa abilità può essere impegnata nella meditazione di discernimento o, detto più semplicemente, di presenza aperta. L’attenzione non è più focalizzata su un oggetto specifico, ma sull’esperienza stessa, nella sua interezza.

Vediamo come cambia radicalmente l’orientamento all’oggetto. L’attenzione tende a spostarsi verso la soggettività. La dis-identificazione conquistata nella fase precedente è mantenuta così come il grado di consapevolezza dei processi mentali.
Quello che cambia è il grado di apertura. Il focus di attenzione si amplia proprio perché è variato il compito cognitivo richiesto. La chiarezza dell’oggetto viene in qualche modo offuscata perché il compito è nuovo, e quindi l’oggetto su cui si convoglia l’attenzione è diverso e non visto in modo chiaro. La stabilità conquistata in precedenza tende a retrocedere e assestarsi a un livello medio: s’inseriscono nuove distrazioni, nuovi ostacoli. Si ripresenta nuovamente un certo grado di sforzo. Non è più uno sforzo paragonabile alla fase del principiante nella meditazione di attenzione focalizzata. Al praticante è richiesto di calibrare accuratamente lo sforzo in questa fase: troppo sforzo non permette di proseguire nelle fasi seguenti, così come uno troppo blando.
La presenza aperta dell’esperto
Vediamo ora la condizione di un praticante esperto che ha affrontato l’intero percorso e ha raggiunto la maestria della meditazione di discernimento (presenza aperta).

Vediamo che c’è una completa dis-identificazione rispetto a ciò che è percepito. Il termine esatto è la massima de-reificazione: la realtà viene “vista” come l’insieme dei processi di elaborazione e costruzione soggettiva di ciò che viene percepito. Questo spostamento verso la soggettività è indicato come lo spostamento verso lo zero nella scala di orientamento all’oggetto. L’individuo è consapevole dell’insieme dei processi che concorrono alla co-costruzione della realtà: la consapevolezza in posizione meta è massima.
Vediamo in questa condizione la massima apertura all’esperienza possibile. La realtà viene “toccata” nella sua interezza, in un tocco unificato. La chiarezza è massima: nessuna impurità si frappone tra l’individuo e ciò che è. La condizione è stabile, immutata e imperturbabile di fronte alle esperienze. Lo sforzo è assente, perché il funzionamento è integrato. Non c’è più un fare, c’è solo un essere che irradia la sua condizione, senza alcuno sforzo.
Per approfondire » Gli stadi della meditazione
Dunque: concentrarsi o lasciare andare?
Il percorso qui delineato ci da il panorama minimo indispensabile per dare una risposta a questa domanda. Penso che il lettore, seguendo i vari passi, abbia già compreso la risposta.




Un certo grado di impegno e di sforzo è richiesto durante tutto il percorso, con intensità variabile a seconda degli stadi in cui ci si trova. All’inizio lo sforzo è massimo perché si sta cercando di apprendere una nuova abilità e non si sa come fare. Poi via via questo diminuisce ed è calibrato dal praticante, scelto in modo consapevole. Né troppo, né troppo poco. Quello che serve per progredire. Si acuisce la capacità di riconoscere quando si sta spingendo troppo, andando a finire nella forzatura, così come quando si sta facendo troppo poco, rimanendo inutilmente rallentati.
Ora rivelerò il vero senso del titolo del post. Ho contrapposto le due condizioni, il concentrarsi e il lasciar andare, perché generalmente sono percepite come in antitesi. Se mi sto concentrando mi impegno, cioè percepisco soggettivante un certo grado di sforzo, non sto lasciando fluire la vita, sto resistendo. Lo sforzo, l’impegno, è associato alla resistenza verso la realtà.
Negli stadi finali si ha la comprensione esperienziale che tutto va bene così com’è, non c’è bisogno di cambiare nulla. Chi si impegna e si sforza sta tentando di alterare ciò che è e quindi si sta allontanando dall’obiettivo, fluire con la vita.
Questa comprensione si intuisce, è toccata ad intermittenza anche dai praticanti in varie fasi del percorso. Nasce allora l’apparente contrapposizione. La tensione è spesso esacerbata da istruzioni che arrivano da individui che hanno raggiunto la condizione di stabilità e che, dal loro punto di vista, hanno la visione della perfezione assoluta di ogni condizione umana. Perché impegnarsi? Tutto va bene così com’è, basta lasciarsi andare. È vero, è davvero così. C’è un però, bello grosso anche.
Il pericolo di queste affermazioni è che spesso attirano e sono usate da strutture di personalità che letteralmente le usano come scusa per non impegnarsi e per rinforzare un edificio di difese reattive. La mancanza di impegno ha trovato la sua giustificazione nella saggezza. Si chiama bypass spirituale.
Il problema è che non funziona. A lungo termine non funziona perché non può essere mantenuta la stabilità della condizione. Si può tentare di toccare l’esperienza della presenza aperta nella sua apertura totale, stabilità, chiarezza e assenza di sforzo, ma se non ci sono le condizioni che hanno costruito le basi, la condizione non può essere mantenuta a lungo. La condizione può essere toccata, certo. Svariate testimonianze ci confermano questa possibilità. Si tratta però di una toccata e fuga. Un’esperienza che poi è persa nel tempo.
Le basi si costruiscono con l’impegno, con la pratica quotidiana, sapendo in quale fase ci si trova e facendo un passo alla volta, sforzandosi di andare oltre i propri limiti. Si, andare oltre ai propri limiti richiede una certa dose di sforzo.

Scarica l'articolo in pdf
Scarica l'articolo che stai leggendo nel comodo formato pdf, pronto per essere stampato o letto offline su qualsiasi dispositivo.
Impegnarsi e lasciare andare
Come conclusione ti propongo la sintesi di questa apparente contrapposizione: da una parte c’è lo sforzarsi, l’impegnarsi, e dall’altra l’accettazione, il lasciare andare, il fluire. Come uniamo queste apparenti polarità?
Impegnandoci, e lasciando andare.
L’impegno non è necessariamente contrapposto all’accettazione di ciò che è. Tutt’altro! Accettare ciò che è, la nostra condizione attuale, è proprio quell’atto interiore che permette di impegnarsi nel modo ottimale per raggiungere una condizione migliore.
Prendi questa posizione: vado bene così come sono.
Prendi anche quest’altra posizione: mi impegno a fare meglio.
Quanta forza si genera da questa duplice presa di consapevolezza? Un’enormità. Proprio quell’enormità di energia vitale che può essere riversata nella vita e nella pratica, nell’impegno necessario per conquistare una condizione di consapevolezza superiore.

Bibliografia
Lutz, Jha, Dunne, Saron – Investigating the phenomenological matrix of mindfulness-related practices from a neurocognitive perspective.
Photo credit: Aperture Yogi via VisualHunt / CC BY-NC-SA
9 commenti su “Meditazione: concentrarsi o lasciare andare?”
Ottimo lavoro, bravo Agostino.
Grazie Silvano, è un piacere esprimermi in questo modo.
Ciao
Articolo veramente illuminante (come devo dire la maggior parte del blog). Grazie a te ho scoperto e ho avuto la possibilità di partecipare all’intensivo sull’essere consapevole; mi chiedevo dove si potrebbe collocare (rispetto agli schemi illustrati) il tipo di sforzo che si fa durante l’intensivo.
GRazie
Ciao Davide, mi fa piacere che l’articolo sia stato utile a fare chiarezza.
All’Intensivo la tecnica accompagna il partecipante attraverso tutti e quattro gli stadi qui delineati. A seconda dell’abilità del partecipante gli stadi si susseguono più o meno velocemente all’interno dei 3 giorni (l’Intensivo in sé ha un’impostazione che segue questi principi dando le indicazioni mirate al primo, secondo e terzo giorno.)
Il maestro di Intensivo da delle indicazioni generali al gruppo, seguendo questa sequenza, ed è in grado di riconoscere dove si trova il singolo partecipante e dargli indicazioni specifiche in base al suo stato durante i colloqui individuali. Quindi all’interno del primo, secondo o terzo giorno c’è uno stato generale, del gruppo, che riflette la sequenza progressiva, e uno stato del singolo individuo che potrebbe essere più avanti o più indietro rispetto al resto dei partecipanti.
Grazie Agostino, apprezzo molto i tuoi articoli per chiarezza, logica e profondità. Stavo leggendo il libro meditazione integrale di Wilber e navigando sul web per cercare un’immagine sono arrivato sincronicamente a te. Grato e felice di questo incontro.
Grazie Alberto per la stima!
Adoro quando si verificano questi incontri in cui un intento di ricerca viene appagato. La mia attività di divulgazione ha proprio questo scopo.
Ti auguro una buona permanenza sul sito. Se hai domande da fare, sai che sono a disposizione per condividere le mie conoscenze.
Grazie Agostino per l’articolo che hai scritto. Nonostante sia abbastanza ignorante in materia, ho trovato chiari tutti i concetti che hai espresso, sia nel linguaggio che nei contenuti. Ho ritrovato alcune esperienze che mi sono accadute chiarite dall’articolo da te scritto. Mi fa piacere che ci siano persone che anche a livello divulgativo possano dare chiarimenti su fatti che spesso vengono relegati in un un’angolo della nostra vita. Ciao
Grazie Paola per avere lasciato questo commento. Mi fa piacere essere utile con quello che scrivo e soprattutto mi è utile sapere che risulta comprensibile e arriva con chiarezza e (mi auguro) completezza.
Buona permanenza sul blog, se sei interessata a questi argomenti troverai certamente altri articoli interessanti.
Ciao Agostino, non ricordo quanto tempo è passato dalla prima volta che lessi quest’articolo quando mi entusiasmai pensando “meraviglioso, tutto chiaro!”, tre o quattro anni direi.
C’è una metafora che mi piace usare perché rende bene l’idea del mio caso, visto che conosco bene sia la ruminazione che la dipendenza: ce ne vogliono di carote davanti al muso del somaro per spingerlo a muoversi e intraprendere il suo cammino!
In termini più poetici serve un *contesto straordinario* per sostenere una persona a compiere questo percorso e se sono ancora qui lo devo alle persone come te che con cognizione di causa sanno pizzicare le corde giuste, avendo conosciuto sulla propria pelle, i trabocchetti in cui si può incappare, e che si spendono senza posa, ognuno alla sua maniera, nell’affiancare quelli che si mettono sulla strada.
Guns N’ Roses – Live And Let Die
https://youtu.be/6D9vAItORgE
When you were young and your heart
Was an open book
You used to say live and let live
(You know you did)
(You know you did)
(You know you did)
But if this ever changin’ world
In which we’re livin’
Makes you give in and cry
Say live and let die
Live and let die
What did it matter to ya
When you got a job to do you got to do it well
You got to give the other fella hell
You used to say live and let live
(You know you did)
(You know you did)
(You know you did)
But if this ever changin’ world
In which we’re livin’
Makes you give in and cry
Say live and let die
Live and let die